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A cura di Giacomo Conserva




Wittgenstein: un Monologo*
di Sonia Caporossi

28 dicembre 2014





a Emilio Garroni

Descrivi l’aroma del caffè.

L. Wittgenstein


Quaderno privato. Da non pubblicare, a rischio di sembrare matto, o quantomeno, retrivo.
Appunto disordinato, numerato alla rinfusa.
Giorno: corrente. Rilettura: passata. Lettori posteri presunti: il minor numero possibile.
Titolo del paragrafo, se occorre un titolo.
Inutilità di una metafisica che graverà per sempre sulle nostre teste.
Sto meditando in questi giorni sull’essenza metafisica del linguaggio. In definitiva, sulla sua connaturata ontologia. Tautòs lògos. L’essenza definitoria interna alla struttura stessa del linguaggio, qualsiasi linguaggio, che nasce per forza di cose, come conseguenza, quando ad un significante come immagine acustica facciamo corrispondere storicamente e quindi, arbitrariamente, un determinato significato o valore concettuale.
Occorre cominciare a buttar giù qualche paradossale contraddizione. Bene, diamoci pure da fare, cercando di evitare, il più possibile, citazioni dall’Isagoge di Porfirio.
Aristotele proprio non posso sopportarlo.

* * *

Paragrafo Primo. La metafisica del linguaggio.

Premessa concettuale, in forma di postulato.

A) È ontologicamente impossibile parlare della metafisica fuori da termini, canoni e confini metafisici.

Perché?

È come indagare le motivazioni private e personali che un cane ha di mordersi, ogni giorno un po’, la coda. Non possiamo sapere fino in fondo perché lo fa; possiamo, al massimo, analizzare come lo fa. Nel momento stesso in cui indaghiamo il motivo per cui un cane si morde la coda, non stiamo facendo altro, in definitiva, che applicare il nostro sistema di riferimento mentale etologico ai parametri di comportamento di un individuo vivente che non pensa e non ragiona come noi. Pur tuttavia, la necessità dello scoprire il perché è ciò che ci spinge in quanto umani.
E l’operazione in sé è quantomeno pretenziosa.

Proposizione n. 1.
Tutto il linguaggio è metafisico.
E questa è una bella crassa, grassa, giuliva oca tautologica.
È come dire: Dio è Dio. Dio è divino. Dio è se stesso.
Usciremo mai fuori, noi poveri esseri umani, dalla necessità psicologica del tì estìn? Non credo sia possibile. Il tì estìn ci domina. Socrate continua pedissequamente a penetrarci fra i lombi con la mollezza della mente che si traveste da forzuta energheia. La carne dell’orrore tautologico. L’orrore, l’orrore del colonnello Kurtz applicato alla pretesa filosofica di sapere. L’orrore intrinseco e umano, troppo umano del linguaggio.
Lo stesso orrore che è in Dio. L’orrore stesso che è Dio.
Prendiamo come esempio l’assunto medievale: aliquid stat pro aliquo. Nel rinviarsi incessante dei segni, nell’ondeggiare mellifluo del linguaggio in seno al senso, nasce in noi la possibilità della comunicazione. Niente di più confortante della possibilità di potersi capire a vicenda. E allora, mi si dirà, dove sta l’orrore in tutto questo? Se in definitiva, nell’uso quotidiano e comunitario delle definizioni, ci capiamo a vicenda?
È un po’ come quando Derrida parlava di decostruzione come di una specie di movimento che la filosofia compie intorno ed ai margini della metafisica, non potendosi mai pienamente sbarazzare di essa. E poi gli storici della filosofia, per questo suo atteggiamento analitico — critico terroristico (da buon algerino!), hanno shiftato il termine da “decostruzione” a “decostruzionismo” (caro, vecchio Paul De Man!), facendolo ricadere in pieno in quella metafisica dalla quale pure per tutta la vita aveva tentato di divincolarsi, nonostante affermasse la totale impossibilità di riuscirci in pieno.
Derrida è decostruzionista.
X è y.
Dio è se stesso, solo cambiato di segno.
E allora? La metafisica forse non sta tanto, come voleva Derrida, nella metafora? Non è questo il punto. È vero che nella metafora ci sta la poesia. È vero che la metafisica appare invece come la prosa del pensiero, come la baldanza della definizione che pretende di dire, di sapere, e lascia agli altri il mero fare. Come la presunzione del “che cos’è”. Come l’orrore di una copula sodomitica e socratica che esige un suo corrispettivo in moneta sonante, nella parte nominale ben recitata da tutti noi, che siamo gli attori.
Attori di atti inconsulti del linguaggio.
Atti unici? Sì, secondo la saussuriana parole, eppure universalmente comunicabili. Non facciamo che recitare una sceneggiatura linguistica monocorde fondata sul nostro proclitico copulare indefesso, eppure ci capiamo gli uni con gli altri. Ci intendiamo, in quel “che cos’è”, nell’ “x è y”, nelle miriadi di risposte multiple al “tì estìn”, nell’istanza metafisica stessa del linguaggio. Alla metafisica non si sfugge.
È come la morte. Anzi, di più.
Poi è arrivata una frotta di filosofi strutturalisti a rompere le uova nel paniere del Sistema, in pieno Novecento, una flotta da Invincibile Armata a rivoltare l’Ottocento come un guanto, come un condom al contrario che rende sterile chi non l’indossa, a incappucciarci di critiche al sistema metafisico, utilizzando (consapevolmente?) di esso lo stesso identico linguaggio metacorporale.
Una sorta di critica metafisica essa stessa, astratta perché astraente, che non esulava dal Sistema proprio in quanto ne svolgeva la critica, la critica della critica della critica della et cetera; che poteva pure tacciarsi di essere antimetafisica, ma per quello stesso “essere” pur definibile in qualche cosa, in qualche modo, certo oltre la metafisica non era.
Come cristo tutto questo sia stato possibile, e soprattutto come sia potuto essere passibile di movimenti adeptici e di consensi, io non lo so.
Il tempo è prezioso: non intendo scoprirlo.
Ma che cos’è il tempo? Mio grande, mio dolce, mio docile Agostino…Perché mai hai sentito l’intima necessità di domandartelo?

Proposizione n. 2
Ogni singola parola è un’astrazione che rimanda a qualcos’altro, in un cortocircuito metafisico di senso e significato.
Quando? Dove? Perché?
“Il segno è infatti una cosa che, oltre all’aspetto sensibile con cui si presenta, porta a pensare qualcosa di altro a partire da sé.” (Agostino, De doctrina christiana I.1.1). Il dualismo di senso e significato oggi sostituisce dicotomie di una metafisicità ben più manifesta, e che un tempo si travestivano da Dio e Diavolo, da bene e male. Occorre andare al di la del bene e del male. Sì. Ma quando? Dove? Perché? E soprattutto: come? Fra senso e significato, non c’è una pura e semplice relazione di uguaglianza, ma neanche una pura e semplice relazione di inferenza. Non univoca, almeno. E non preferenziale. Un segno rimanda non ad un altro segno, ma ad altri segni. A volte, a molti altri.
Praticamente, rinvia ad un sano: “non mi ci raccapezzo”. Ecco perché è sempre esistita la metafisica. Seppure consista bellamente in una presa in giro con cui il linguaggio deride se stesso (con cui il linguaggio di Derrida deride se stesso!), ci sembra di raccapezzarci in essa. Appare sbrogliarci dalle secche del pensiero, del linguaggio. Si manifesta come una volontà superiore di ordine rispetto all’ineffabilità del sentire, rispetto all’inesprimibilità dell’aroma del caffè, che mai e poi mai riuscirò a definire se non in qualche modo. Ovvero poeticamente, come a dire: esteticamente.
Ma essa serve davvero ai nostri scopi?

Proposizione n. 3
La metafisica è fallace.
Non è difficile, dal criticismo in poi, affermare la fallacità della metafisica, ovvero l’essenza eterea del linguaggio, nebulosa, gravida di umori e febbri sospese e tracciate dalla linea del mercurio temporale del vivo pensiero. Per gli antimetafisici, che non sanno di essere ultrametafisici, la metafisica sbaglia perché possiede un’istanza definitoria astraente, la quale afferma postulando a priori ciò che andrebbe verificato a posteriori. Ah, la métaphysique! Bisogna proprio prenderla a martellate in pieno viso; bisognerebbe, nevvero?, filosofare col martello.
Ma è come dire che la metafisica sbaglia, perché è metafisica. E non c’è qualcosa di sbagliato in questa stessa proposizione?

Proposizione n. 4
L’assunto dello strutturalismo è, parafrasando l’incipit de Il Ritratto di Dorian Gray: tutta la metafisica, come l’arte, è perfettamente inutile.
Non serve a nulla, non serve nulla. Non serve a nulla in quanto le categorie kantiane, una volta assorbite nell’intelletto, esauriscono la loro funzione costitutiva del pensiero per diventare semplici strumenti nelle mani del soggetto pensante — pensato. Non serve nulla, perché la metafisica “lascia tutto così com’è”, un po’ come la filosofia secondo le mie Ricerche Filosofiche. Non a caso, per secoli, la filosofia si è identificata esclusivamente con la metafisica, con sommo gaudio di Platone ed Aristotele, della Padristica occidentale, di Spinoza e di Leibniz, del pensiero comune così com’è pensato. Non serve nulla, perché in realtà non si mette al servizio di niente e di nessuno: è lì, nel non luogo metafisico, nell’iperuranio della pretenziosità calata dietro il sipario della scienza, nei retroscena di velluto rosso della Loggia Nera di Lynch, che non cerca e non trova vie d’uscita dalla dannazione dell’attrazione sensibile del male, dal proprio autocratico isolamento. Essa non tenta di correggere il proprio atteggiamento astrattamente definitorio, là dove un tentativo di definizione del reale in termini di linguaggio non è più possibile, a meno di incaponirsi nell’assurda pretesa pseudoscientifica di voler definire il necessario attraverso il contingente, l’assoluto attraverso il relativo, e non (questo sì!) tentare anche solo di cogliere l’astratto nel concreto.
Secondo lo strutturalismo, la metafisica non serve, perché è sbagliata. Ed è sbagliata, perché non serve. Ma anche l’arte è perfettamente inutile, come sosteneva giustamente Oscar Wilde.
Dov’è che l’arte sbaglia?

Proposizione n. 5
Intendere è come un cogliere di colpo.
Questo “cogliere di colpo”, su cui mi dibatto da anni nelle mie solitarie austriache meditazioni, prive del galateo intellettuale di Oxford, è possibile proprio perché rimanda ad una dimensione estetica di significato in base alla quale nulla, dico nulla è definitorio: neanche questa stessa frase. Ma ha luogo una tale dimensione quando si trapassa nel campo dell’espressione linguistica?

Finché sento, tutto è bene. Quando cerco di esprimere in forma di linguaggio ciò che sento, attraverso l’istanza definitoria, lì comincia il campo di dominio della metafisica. Ma allora, se il linguaggio è metafisico per sua stessa interna costituzione, che cosa non lo è?
Il mio intendere non lo è. Non lo è e continua a non esserlo nemmeno mentre parlo. Quanto io sento, io sono, senza l’intimo bisogno di una y a predicato. La parola è un sovrappiù al mio sentire. La parola è espressione della sensazione e del sentimento.
Io sento, quindi intendo. Ma che cosa succede quando cerco disperatamente di tradurre in parole le immagini interiori di questo mio privatissimo sentire? Che strumenti devo utilizzare per poterlo anche soltanto esprimere in qualche modo?
Occorre volgersi allo strumento privilegiato della poesia, ciò in cui si insinua insidiosamente la metafisica stessa del linguaggio. Io debbo parlare per metafore. E debbo farlo proprio per farmi capire dagli altri.
Il linguaggio personale è perpetua parole. È inesauribile poesia in forma di rosa. Pier Paolo, aiutami. Che cosa intendevi dirmi?

Proposizione n. 6
La definizione è nel linguaggio ciò che Dio è nella teologia: il simbolo delle modalità di funzionamento di un tipo di pensiero, di un particolare sistema di riferimento mentale.
Il verbo essere, copula nell’analisi logica, per sua natura sembra subire le peggiori storture quando viene usato in gergo filosofico, nelle istanze definitorie, in quanto racchiude in sé il germe stesso, nosoforo e malsano in quanto tale, della forma logica della definizione: “x è y”. Eppure, questo è il modo peculiare che noi tutti abbiamo di parlare. È la natura stessa del linguaggio! Dov’è che sbagliamo? Non potremmo esprimerci nei nostri sentimenti, nelle nostre emozioni, impressioni, sensazioni, in un linguaggio diverso da quello che già possediamo.
Ce ne dobbiamo fare una colpa?
Dio mio, sono un porcospino, in quanto tale mi rotolo spesso, e rotolarsi sporca, e rotolandomi mi rendo impuro. Dov’è che sbaglio, se sono un porcospino? Dov’è che sbaglio, se mi rendo impuro?

Proposizione n. 7
Quale è la forma logica del cogliere di colpo in senso estetico? Essa, semplicemente, non esiste.
Si potrebbe dire anzi che non possiede neanche una forma, se la sua “forma” è estetica. Se è tale, infatti, è anche in continuo mutamento agli occhi della mente e della percezione sensoriale; si presenta come un “intreccio di somiglianze e di differenze”.
Un insieme di Cantor del pensiero? Non mi sembra proprio. Piuttosto: una ghirlanda variopinta del sentimento. Poesia in forma di rosa. Poesia metaforica a getto continuo, in fluida mobilità. Petali e petali rossi di sentimento mi sbocciano nel cuore ad ogni primavera del pensiero. La primigenia istanza del capirsi passa attraverso tutto questo.
E tale è anche e soprattutto la funzione storica dell’arte.

Proposizione n. 8
X non è tanto y quanto a,b,c,d,e… dove a,b,c,d,e… sono connessi con x riguardo un diffuso fondo di senso comune, solidale con l’oggetto per quanto riguarda il concetto di sé: il mutamento della varietà riconoscibile.
Qui “mutamento” non significa necessariamente “metamorfosi in continua evoluzione” alla maniera di Eraclito e, in parte, di Hegel. Può anche solo significare un impuro manifestarsi eterogeneo di elementi (che non sia un coacervo indistinto, bensì recuperabile in una pur vaga parvenza di forma logico — razionale a base estetica), di cui uno differisce dall’altro ma è simile ad un terzo che ha elementi in comune con il secondo il quale è solidale con un quarto che non ha niente a che fare con gli altri due e così via, come le parentele trasversali di una famiglia ricolma di figliolanze imbastardite e prive di ideali ariani. Le parole sono come cugini di primo, secondo, terzo, quarto grado. A volte neanche si conoscono a vicenda, eppure si rimandano l’una con l’altra, perché hanno lo stesso sangue, perché sono solidali riguardo le sensazioni, e quindi i concetti, di sé e degli altri. Infatti, a rimandarsi le une con le altre, prima di tutto, sono le sensazioni dei senzienti. Le parole, per dirla in breve, sono un campo fecondo in cui crescono folte le spighe della solidarietà.

Proposizione n. 9
La metafisica è superata non solo perché, insomma, inutile nel senso sopra descritto, ma anche paradossalmente proprio perché non se ne può fare a meno.
Non se ne è mai potuto prescindere, per Dio! Non ce ne libereremo mai. Questo è il punto. La poniamo come problema ogni singolo giorno della nostra esistenza, perché essa è ovunque e sempre. Impossibile disfarsene. È nella natura stessa del linguaggio. E nel momento in cui parliamo, la riduciamo a oggetto di riflessione, la possediamo, la facciamo nostra, la superiamo nei suoi presunti legacci impedenti: essa non è più un problema, bensì, semplicemente, il nostro modo di esprimerci.
Riflettiamo ad esempio sul concetto di sublime, del quale darei questa metafisicissima ed intrinsecamente tautologica definizione: il sublime è l’impensato o ciò che non è stato ancora pensato. Ma per il fatto stesso che esiste un termine che lo determina, un nome che lo denomina, il sublime è già stato pur pensato in qualche modo! Dunque esiste un termine metafisico, perché astratto ed astraente, per indicare un pensato che in quanto già pensato in qualche modo, non può fare a meno di essere continuamente pensato e ripensato, appunto in qualche modo; di conseguenza, esiste almeno nel pensiero che lo pensa, nel pensatore che pensa quel pensiero, nel pensatoio del pensatore, sospeso in una cesta con i discepoli stesi a terra a percepire il contatto con le proprie sensazioni. Il nostro personale phrontistèrion da esseri semplicemente umani non è mai monadico, com’è invece il pensatoio di Dio. Anzi, è sempre interconnesso da miriadi di relazioni multiple intersecantesi all’infinito, nel comune fondo di conoscenze ed esperienze dell’umanità.
Dio è Dio.
L’uomo è l’uomo.
X continuerà sempre ad essere y.

Proposizione n. 10
Un concetto metafisico, una volta pensato, è ineliminabile dal pensiero che pensa nel qui ed ora del pensiero stesso.
Ma del resto, può esistere un pensiero che non pensi solo ed esclusivamente hinc et nunc? Solo Dio è eterno e fuori del tempo.
Ma Dio pensa?
È questo un problema esemplare che ci riguarda? Sì: homo sum, ultrahumanum nihil a me alienum puto. Ed è un problema che possiamo risolvere in modo definitivo? No. Ma proprio per questo, a ben vedere, il noumeno kantiano non è un impedimento alla conoscenza, perché possiamo provarci almeno in modo definitorio; ovvero, direbbe Kant, in modo metafisico. Ma se metafisico è per sua stessa natura il linguaggio, dunque, tenteremo ogni volta di risolvere problemi come questo in modo contemporaneamente anche teoretico, oltre che pratico, in virtù dei nostri stessi strumenti linguistici e di pensiero, ed a partire dal fondo comune di senso estetico in cui siamo immersi a testa china.
Un tentativo definitorio di parlarne può essere il seguente.
Se anche Dio pensasse, penserebbe in modo diverso dal nostro. In ambedue i casi, sia che pensi o che non pensi, come facciamo a saperlo?
Tutto ciò che ci rimane, per ora, è un’affermazione in forma di domanda. Ma non è forse anche questa, ben lungi dall’epokè, una forma di conoscenza? E se ci scrivessi sopra un poema, che forma di conoscenza sarebbe?
La più metafisica. La più perfetta e sublime. Una poesia.

Proposizione n. 11
La metafisica del linguaggio sopravvive benissimo sul filo del rasoio di un paradosso metaforico inestinguibile.
Il paradosso consiste nel fatto che la metafisica, nonostante la sua inutilità vada a braccetto con la sua eterna sussistenza nell’universo mentale, viene superata continuamente nel momento stesso in cui viene messa in questione: proprio quando viene problematizzata, non è più un problema. Io ne parlo, e nell’attimo in cui lo faccio, la posseggo in tutte le sue molteplici accezioni. Io ne parlo, e nel momento esatto in cui mi esprimo, ci sono in mezzo, mi ci calo, è cosa mia, rientra nel mio personale ma universalmente comunicabile orizzonte di senso.
Io sono un uomo metafisico che si dibatte sorridendo e pieno di speranze nella fluida metamorfosi del tropo.
Io detengo in me la possibilità di comunicare con il mio prossimo, all’interno e sulla soglia dell’immenso campo semantico di ogni possibile semiosfera. E da quella soglia io osservo ciò che c’è oltre, ciò che c’è dopo, disegno il volto di Dio a mia immagine e somiglianza. Niente e nessuno può fermarmi. Io raccolgo in me, in un florilegio cornucopico metaforico, tutta l’incessante poesia, possibile ed impossibile, del linguaggio. Io racchiudo in me le infinite possibilità estetiche e logiche della metafisica. Il diavolo se la porti, la posseggo metafisicamente nella sua totalità!

Proposizione n. 12
Non esiste nulla di cui non si possa parlare. Non esiste nulla di cui si debba tacere.
C’è forse un limite espressivo alla poesia? No. Che la prosa si adegui, se può. Ma la prosa già lo fa, da millenni. Non c’è trucco, non c’è inganno. La metafora è il fondamento del nostro modo di sentire, di pensare, di parlare. Ci ho pensato, pensato infinite volte. La metafisica è il prose poem del pensiero. La sua istanza, io lo so, è metaforica. In questo aveva ragione Derrida. Solo che non c’è il minimo problema in tutto questo. Solo che la metafisica non la si può decostruire, a meno di un tentativo di suicidio fisico ed intellettuale. Perché essa è la natura del nostro stesso pensiero — linguaggio. Quindi Derrida aveva, anche, torto.
Quanta poesia c’è nella prosa?
Quanto orrore cosmico dell’intelletto risiede nelle grandiose possibilità del sentimento?
Quanta poesia ipnoterapeutica c’è nella filosofia?

* * *

Appunto disordinato, numerato alla rinfusa. Scritto per puro caso. Con il filo di sangue che macchia ogni giorno il mio rasoio di Occam.
Giorno: corrente. Rilettura: infinite volte, e con sfumature metaforiche sempre diverse. Le sfumature le ha operate il barbiere di Occam. Come la zigrinatura obliqua della capocchia di uno spillo, come la tonsura circoscritta di un chierico vagante, un circolo di senso e significato mi vortica danzando nel cervello. La soluzione più giusta è sempre quella più semplice. Così si risolvono davvero i problemi: scoprendo che non ce ne sono mai stati.
Lettori posteri presunti: il maggior numero possibile. Perché è bene che quanto di ovvio vi sia in queste pagine venga rimuginato.
perché è bene che se ne parli.
Perché è nell’ovvio che c’è davvero la meraviglia.


* Pubblicato precedentemente in Nazione Indiana il 26 giugno 2013.


Ludwig Wittgenstein nel suo documento miitare, 1918

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